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Napùl, quando vivere a Napoli è impresa di guerra

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Con Napùl, Marco Perillo viviseziona la città, raccontando i non detti nascosti sotto la superficie.

Chi vive ai margini di Napoli sa cosa significa sopravvivere ai momenti difficili.

Dove con sopravvivere intendo dire il “vivere sopra”, e cioè il fare finta di niente, chiudere ancora una volta gli occhi, il passarci sopra e andarsene a dormire chiedendo un altro più di pazienza.

E ancora.

I mezzi che non passano, la puzza dei roghi tossici, qualche testa bassa se incroci qualcuno che sai che è malamente.

L’aspetto più difficile di questo Paradiso abitato da una manica di diavoli è noto ai più, ma quello che spesso manca, in letteratura così come nel cinema, lontano dalla facile retorica del cambiamento, del non arrendersi, è un obiettivo puntato addosso alle storie che restano ai margini.

Senza parlare solo del brutto.
Senza cercare, a tutti i costi, il posto al sole, al caffè, al mandolino.

E in Napùl (edito Alessandro Polidoro Editore), «come un lampo accecante, nell’aprire e chiudere gli occhi», Marco Perillo recupera tutto, buoni e cattivi, mescolandoli.

E li confonde al punto che spesso i margini sono evanescenti, le differenze non le cogli più e allora davvero vedi Napoli, la sua anima costantemente in guerra.

Spari, buchi nella pelle, sangue sull’asfalto, Romeo e Giulietta ancora una volta ostacolati, anche a Napoli, anche dove la luna tuffato nel mare può innamorare.

Un groviglio preciso di personaggi che si accumulano e si ritrovano in una città stratificata come pianerottoli di un palazzo storico, abbandonato, con l’intonaco che cede al tempo, ma comunque bello, affascinante e che ha tanto da raccontare.

Marco Perillo ricostruisce la topografia delle città, a partire dai non detti e dalle concause nascoste dal solito articolo di giornale che si è limitato a trovare il titolo sensazionalistico.

Napùl è una raccolta di racconti in cui a cementificare le storie, a incollarle, a tenerle aggrappate ad un unico disperato grido di insopportazione, è il dialetto.

Un linguaggio che esce dalle caporali, non straborda e basta, ma emerge nella prosa e dà un senso all’umanità ferita e irredimibile disseminata nelle pagine di Marco Perillo.

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