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“Ho rivisto Dawson’s Creek e ho pianto di nuovo”
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4 anni fail

Disponibile su Netflix, Dawson’s Creek ha ancora qualcosa da raccontarci?
Dawson’s Creek ha accompagnato gran parte dell’adolescenza di chi è cresciuto ai tempi di “Oops!… I Did It Again” di Britney Spears, mentre il buco dell’ozono pareva allargarsi sulle teste di ognuno di noi, terrorizzandoci con l’effetto serra, prima che le Twin Towers inoculassero la paura del terrorismo.
Dawson’s Creek ha reso sospettosa l’adolescenza di molti a causa di quei pomi d’Adamo impossibili per quindicenni ancora imberbi e, se ci mettiamo i dialoghi concettualissimi da esame di filosofia su Jung, il lettore allora capirà e condividerà il senso di inadeguatezza profondo che ha messo in dubbio la nostra stessa crescita.
Per chi non lo sapesse, per l’abitudine delle produzioni dei racconti seriali statunitensi, gli attori che interpretano adolescenti sono più grandi di cinque/sei anni cosicché, a interpretare una sedicenne in via di sviluppo, ti ritrovi una donna che faresti fatica a incontrare in classe al terzo anno di liceo, per quanto, si sa, le femminucce crescano molto prima dei maschietti, fisicamente e mentalmente;
e, dall’altro lato, uomini ben messi fisicamente e ormai pronti a metter su famiglia si ponevano come modello estetico a imbrufoliti corpuncoli tutto apparecchi e gel per capelli al gusto cocco extraforte.
Rivederla, però, a trent’anni, da adulto, passando sopra a tutti quei meccanismi di immedesimazione che incredibilmente, in qualche modo, avrà comunque funzionato vent’anni anni fa, quando ci convinse ad arrivare fino all’ultimo episodio, ha tutto un altro valore.
Innanzitutto, parto proprio dai dialoghi e dalle età, alla luce, ovviamente, del significato che se ne può trarre dagli ultimi due episodi.
Il punto di vista di chi narra, anche se non è espresso, anche se le storie si ingarbugliano senza più far vedere chi è che osserva, lasciandoci anzi partecipi delle storie, degli amori, dei lutti, delle risate,- e lo scopriamo nel finale – è sempre quello del sogno di Dawson.
Dawson’s creek è altamente metaletteraria, parla continuamente di letteratura e film, di viaggi e possibilità, parla insistentemente di sé e, non solo perché la serie che Dawson, aspirante regista, riuscirà a produrre per un’importante canale Tv è totalmente ispirata alla sua storia con Joey e all’amicizia con Paecy e al tutto il gruppo che abbiamo imparato a conoscere nelle 6 stagioni, ma anche perché ci svela i meccanismi di produzione degli intrecci narrativi.
E se la serie parla di sé e parla di chi ha raccontato dei propri amici, anche i dialoghi e le fisicità inverosimili trovano una qualche giustificazione col ricordo ingarbugliato dalla crescita.
Mi spiego: passi l’idea che i dialoghi siano altamente letteraturizzati e complicati in un linguaggio che nemmeno un docente plurilaureato durante una lezione per pochi esperti di “psicofisica quantistica” condurrebbe, i ragionamenti, pesanti come macigni, e l’immaginarsi fisicamente adulti, per chi racconta al passato della propria adolescenza, trova senso nel meccanismo stesso del ricordo che, da Freud a Ricouer, tra perdite e lapus, è sempre raccoglimento.
Chi rimembra ancora con quanto calore conducevamo certi discorsi e quanta intensità mettevamo nei progetti, nei litigi, sentendoci già adulti, grandi, eroici di fronte a certi sentimenti semplici, e a maggior ragione più importanti di tutti gli altri, capisce quanto stia cercando di dire e capisce che i dialoghi complessi sono metonimia dell’adolescenza complessa.
Ma basterebbe guardare e ascoltare alcuni Giovanissimi – si veda il link e il romanzo di Forgione – di oggi per capire quanto l’adolescenza di Dawson, Jane, Jack, Pacey e Joey siano rappresentazione di una crescita che, con le sue complessità, si fa spazio verso una maturità che li sorprende, in parte li devasta, sicuramente li rimodella, lasciando intatto un qualche PeterPan, a volte libero, a volte smagliato e perso nelle ombre del passato.
La stessa morte di Jane, personaggio-MacGuffin corporeo, consistente e tutto proiettato ad una evoluzione, che che fa muovere le azioni (è lei che scombussola gli umori-ormoni di Dawson fin dalla prima stagione, facendo precipitare la storia in un tunnel di continui lascia e piglia), è giustificata – per quanto, a denti e pugni stretti, incomprensibile ancora oggi a 32 anni suonati – per motivare un ritorno delle parti, una chiusura definitiva degli eventi.
Ma la morte, come capita nelle grandi narrazioni, non è un punto e accapo, ma un due punti, pronti partenza e via. La morte rimodella i piani, apre spiragli, scombussola i progetti, ti mostra cosa c’è da fare di più urgente.
E allora, nel meccanismo che fa dell’arte un tentativo disperatamente mimetico di uguagliare la vita e la vita stessa che cerca di rimodellarsi alle aspirazione di una vita con lieti fini alla Spielberg – autore amato da Dawson non a caso -, dopo 20 anni questa serie ancora ci ricorda certi aspetti semplici, genuini, umili e per questo i più importanti della vita.
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