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I vuoti di Gerusalemme: simboli e rituali di fede in Terra Santa
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Un viaggio in foto e parole attraverso i vuoti di Gerusalemme: tra simboli e rituali di fede in Terra Santa
Gerusalemme non è una città. È un mondo. Fatto di storie, di guerre, di conquiste, di rivalse, di rivendicazioni, in una terra che, geograficamente, somiglia ad un mosaico composto da tessere opache dai confini irregolari.
Capitale contesa dello Stato di Israele è definita spesso come l’ombelico di un ventre sempre irritabile e dolente. Un viaggio qui non si può improvvisare.
Occorre un tempo congruo di preparazione per un’osservazione meticolosa che trasformi la distanza in coinvolgimento, seppur distaccato, e una mente predisposta a quella conoscenza che, divenendo più approfondita, non potrà mai aspirare a comprensione totale.
Proprio come quando si ha a che fare con la fede, che, nel caso di questa meta, ha una declinazione multipla.
Gerusalemme è “Santa” per le tre principali religioni monoteistiche mondiali: questa stretta compresenza la rende assimilabile ad un paradiso “sorvegliato” da un cerbero sospettoso e in perenne allerta, quasi sempre sul punto di sbranarsi da solo.
Le mura che circondano la città vecchia, insufficiente misura protettiva di una città ripetutamente vittima di saccheggi e invasioni, più che costruzioni difensive si sono rivelate costrizioni ad un continuo rimuginare sul proprio passato.
Gerusalemme è contestualmente affermazione e negazione: protetta e violata; aperta, ma inaccessibile. Otto sono i varchi situati nelle mura: tra quelle aperte, le porte più attraversate sono quella “dei Leoni”, quella “di Jaffa” e quella “di Damasco”; la “Porta d’oro”, chiusa da Solimano il magnifico nel 1541, è destinata all’ingresso del Messia, eternamente atteso dal popolo ebraico.
La “Torre di Davide” è, probabilmente, un punto di partenza ideale per entrare in contatto con la città: la sua posizione panoramica consente una visione di insieme, ma soprattutto perché il nuovo museo, aperto da quasi un anno, permette, ancor prima di inoltrarsi nel dedalo delle vie, di conoscere un po’ di più sulla storia travagliata.
Con la solidità delle pietre, Gerusalemme ha edificato i luoghi sacri, ma è con i vuoti che ha sublimato la sua solennità, riempiendo quegli spazi con la fede e con i suoi simboli. Lo spazio del ricordo di un tempio sacro che non esiste più, di cui non rimane che una facciata, è conosciuto da tutti come il “Muro del Pianto”. Al suo cospetto, accorrono gli Ebrei da tutto il mondo che, separati in uomini e donne, si isolano in preghiera.
L’intensità del credo è estrema e fa oscillare il corpo, fino a quasi sbattere la testa. La preghiera si fa lamento e somiglia al pianto di chi attende con fede, seppur da tempo immemore, un riscontro.
I foglietti di carta su cui vengono scritte richieste e invocazioni, vengono accolti negli spazi tra le pietre, divenendo tutt’uno con le ferite del muro. L’urbanistica di impianto romano divide i suoi quattro quartieri principali (ebraico, musulmano cristiano e armeno) in un incrocio tra cardo e decumano, ma ciò che risalta è la stratificazione degli edifici, in cui il soffitto di uno è il pavimento di un altro.
Proprio come, nel “Monte del Tempio”, l’“Haram esh-Sharif”, che letteralmente si affaccia sul “Muro Occidentale”, accanto al quale, si eleva la passerella di accesso alla famosa “Spianata delle Moschee”.
La moschea di “Al-Aqsa”, insieme agli altri edifici, sono purtroppo interdetti a chi non è di fede islamica. Questo è il luogo sacro riservato solo ai musulmani: da qui Maometto, provenendo dalla Mecca, compì il “Miraj”, un viaggio notturno di ascensione in cielo, al cospetto di Allah.
I controllatissimi ingressi, in ridottissimi orari e con inflessibili regole per l’abbigliamento, concedono a tutti la possibilità di rimanere estasiati dalla bellezza architettonica della “Cupola della Roccia”, dei gruppi di archi a sesto acuto che la circondano e delle decorazioni in piastrelle policrome.
Il bagliore dorato acceca e attenua il racconto disumano del sangue richiesto ad Abramo, come atto estremo di fede, attraverso l’uccisione del proprio figlio: qui, il vuoto si fa custodia della pietra sacrificale, internamente conservata.
Le macchie immaginarie di sangue, versato da Gesù Cristo sulle pietre di cui è lastricata la “Via Dolorosa”, sono le tracce invisibili, seguite dai cristiani di tutto il mondo, che ripercorrono lo stesso itinerario, invocando un sostegno divino, che aiuti a sollevare la propria simbolica croce.
Le stazioni finali sono installate nella “Chiesa della Resurrezione”, che è stata costruita sui luoghi che raccontano della crocifissione, sepoltura e resurrezione di Gesù. Nella penombra degli interni, si snoda un percorso tra le varie cappelle: è un crescendo emozionale, prima imboccando le scale che conducono al “Golgota”, luogo della crocifissione, per poi ridiscendere alla “Pietra dell’Unzione”.
Infine, in un’atmosfera di grandissima suggestione, l’accesso di dimensioni ridotte al simbolo del culto cattolico, richiede devozione e umiltà. L’assenza delle spoglie mortali testimoniano l’avvenuta resurrezione di Cristo: nello spazio del Santo Sepolcro, il vuoto si fa speranza.
Così come, nel sabato successivo alla domenica di Pasqua, quella fiamma che accendendosi da sola, secondo i riti greco-ortodossi, va ad alimentare il fuoco della fede nelle chiese fuori da Israele.
Che si tratti di un pellegrinaggio o di un laico viaggio di scoperta, Gerusalemme è una città che stordisce: per l’abbondanza dei suoi simboli (campanili e minareti, cupole di varia ampiezza, croci, stelle e mezzelune, abiti religiosi e divise militari) e per criteri tutti suoi.
Un luogo dove tolleranza, significa più insofferenza che condivisione, in cui però, basta una semplice, ma irremovibile, scala di legno a pioli, posizionata sulla facciata della basilica del Santo Sepolcro, a perpetrare delle regole non scritte per preservare lo “Status Quo”, tra le sei comunità cristiane che “gestiscono” il sacro sito.
Come una calamita il fascino magnetico di Gerusalemme riesce ad attrarre e respingere, senza mai lasciare indifferenti i visitatori che non si lasciano inibire. Quei viaggiatori che riescono ad approfittare di un periodo di tregua, quel vuoto di durata variabile tra le guerre, che qui, ancora non si può chiamare pace.
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