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Lo street food a Napoli

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La storia dello street food napoletano, tra la tradizione il moderno

Sarebbe sciocco pensare che lo street food sia un modo di fare prettamente moderno. Lo dimostrano i ritrovamenti a Pompei di numerosi thermopolia, l’equivalente delle attuali tavole calde o snack bar, dove gli antichi pompeiani si fermavano a “mangiare un boccone” tra un affare ed un altro. Le giare murate all’interno del bancone in pietra con affaccio sulla strada garantivano il mantenimento della pietanza al caldo e gli avventori, se proprio avevano qualche minuto in più, potevano anche accomodarsi in una saletta interna per gustarsi il pasto velocemente ma non troppo.

A Napoli, questa modalità diventa famosa durante il Settecento, epoca d’oro del Grand Tour, quando viene descritta con dovizia di particolari proprio dai giovani nobili in viaggio alla riscoperta delle antichità classiche. Non era infrequente, infatti, che essi si imbattessero in orde di ragazzini affamati, gioiosi e chiassosi, che si infilavano in bocca manciate di spaghetti.

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Abitanti dei famigerati bassi dei Quartieri Spagnoli, stanze piccole ed anguste perfino per sedersi a mangiare, spesso si ritrovavano davanti alle porte d’ingresso delle loro case a trangugiare maccheroni con le mani e tutti insieme.

Da allora, lo street food ha avuto tante declinazioni. Un esempio, reso famoso dall’interpretazione di Sofia Loren nel film L’oro di Napoli, è la pizza “ogge a otto”: si trattava di una pizza fritta da gustare subito ma che si poteva pagare dopo una settimana.

Divenne il simbolo del secondo dopoguerra, un periodo di fame diffusa e di pochi denari a disposizione. Altri esempi eccellenti sono stati ‘o brodo ‘e purpo, un bicchiere di acqua di cottura del polpo, venduto dagli ambulanti per le strade e condito con sale e pepe e con l’aggiunta di un tentacolo (‘a ranfa), ‘o panino ricotta e cicule, una semplice fetta di pane sulla quale veniva spalmata la ricotta di pecora freschissima e adagiata una fetta di ciccioli di maiale, e ‘o pede e ‘o musso, un insieme di pezzi di zampa di maiale e muso di bovino bolliti e conditi soltanto con sale e abbondante limone.

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Alcune di queste prelibatezze ormai non si trovano più in giro, ma ve ne sono altre ugualmente saporite e delicate. Una di queste è la cosiddetta pizza a portafoglio, una semplice pizza margherita piegata in quattro parti e gustata mentre si cammina per le vie del centro storico. Si tratta della tipica pietanza della zona dei Tribunali e di Spaccanapoli, in bella mostra in vetrinette termiche fuori ai bar e alle rosticcerie, in attesa di essere gustata. Perfino l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton non seppe resistere a tanta bontà.

Altra ghiottoneria tipica delle rosticcerie del centro è il cuoppo, una frittura di terra o di mare, servita in fogli di carta oleata a forma di cono. Nel cuoppo di mare si possono gustare gamberi, alici, calamari e seppie, nel cuoppo di terra, invece, crocchè, frittatine di pasta, pasta cresciuta, arancini di riso e verdure pastellate.

Ma sua maestà resta sempre ‘o tarallo ‘nzogna e pepe. Nato tra il Settecento e l’Ottocento, come molti street food napoletani, anche il tarallo nasce per l’esigenza di recuperare lo sfriddo, cioè gli scarti del pane, per evitare di gettare gli avanzi. I taralli erano il cibo perfetto per chi aveva fame e non aveva soldi: alto contenuto calorico, grazie alla sugna, e bassissimo costo di produzione. Gli scarti del pane venivano reimpastati con sugna (grasso di maiale) e pepe abbondante, poi venivano intrecciati, chiusi a cerchio e guarniti con mandorle. Nei secoli scorsi, si era soliti bagnarli nell’acqua di mare, così i venditori di taralli più conosciuti si trovavano sul lungomare di Napoli; oggi si è soliti accompagnarli con una deliziosa birra ghiacciata.

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