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“Il caso Jekyll”: un’appassionante indagine tra la nebbia della mente umana 

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Si conclude oggi al teatro Bellini di Napoli “Il caso Jekyll” adattamento del romanzo di Stevenson di Sergio Rubini

È un adattamento del famoso romanzo del 1886 di Robert Louis Stevenson, quello messo in scena in queste sere al teatro Bellini di Napoli, con il titolo “Il caso Jekyll” da Sergio Rubini, anche in scena nel doppio ruolo di narratore e Huster Lenyon, e Daniele Russo, anch’egli del doppio ruolo di Dott. Jekyll e Mr Hyde.

Lo spettatore è trascinato in un noir, ambientato nella Londra Vittoriana, seguendo le indagini che l’avvocato Gabriel Utterson intraprende, in seguito all’accadimento di scioccanti delitti, che coinvolgono lo stimato scienziato e amico Dott. Henry Jekyll per la sua misteriosa amicizia con l’oscuro e inquietante Eduard Hyde. Il metodo scientifico che analizza i fatti deve fare i conti con tutto ciò che di intangibile è capace l’essere umano. Grigia è la materia oggetto della trama, così come grigia è l’atmosfera della messa in scena: la nebbia che pervade sia il palcoscenico che, lentamente platea e palchi, offusca anche la ragione di chi indaga e, soprattutto di chi agisce.

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Una scenografia realizzata con vetrate multiple che convergono in una porta girevole a doppia anta restituisce visivamente il contesto di deformazione e ambivalenza, sottotesto fondamentale della trama investigativa. Nel testo, il tema del “doppio” è anche il tema della “metà”: l’essere umano è invitato ad accettare la sua “ombra”, il lato oscuro, istintuale o, peggio ancora, primordiale, per accoglierla, controllarla e limitarla nell’atrocità delle azioni. Solo che, in questo caso, l’Ombra prende il sopravvento sul genio e sulla razionalità, proprio come quando, mentre sta per accadere il peggio, il regista spegne improvvisamente le luci, lasciando lo spettatore solo, al buio, in preda al terrore della consapevolezza.

Coprotagonista della scena è la psicoterapia, che, attraverso la tecnica dell’ipnosi regressiva, risale alle cause della patologia: un’infanzia caratterizzata da anaffettività genitoriale, bisogni infantili inascoltati, episodi di bullismo per un aspetto estetico non conforme alla normalità comunemente accettata, subiti da una mente troppo malleabile che ha reagito, assumendo una duplice forma, contorta e terribile per allontanare la paura, divenendo essa stessa terrore per gli altri. Un’identità inaccettabile, seppur volontariamente assunta, comunque razionalmente combattuta e tenuta nascosta, come suggerisce il nome prescelto: “to hide”, che in inglese vuol dire nascondere.

Seppur l’autore riconosce l’alibi degli abusi subiti, non risparmia il colpevole delle atrocità commesse da un finale forse scontato, e lo spettatore da un monito inquietante. In questo è coadiuvato dal regista che pone, ai lati opposti del palcoscenico, due oggetti fondamentali: una voliera per uccelli, una gabbia, come è la mente di chi soffre di qualsiasi forma di disturbo psicologico e lo specchio, il più terribile, implacabile e sincero rilevatore e rivelatore di deformità del corpo e della mente.

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